L'entusiasmo con cui avete accolto lo speciale dedicato a "Tutto il buio dei miei giorni", romanzo d'esordio della talentuosa Silvia Ciompi, che ha steso tutti con la sua storia d'amore e rinascita, mi ha resa una blogger felice. Vedervi partecipi e contagiati dalle belle vibrazioni nate dall'incontro con Silvia e Teschio, sono la dimostrazione del potere che un buon libro porta con sé.
Come vi avevo annunciato, dopo aver fatto quattro chiacchiere con Teschio (qui la sua intervista), il protagonista maschile del romanzo, sono pronta a presentarvi quella che è per me la vera stella di questo piccola perla della narrativa contemporanea: Camille.
Voce femminile del romanzo, Camille è una piccola tempesta vivente, in cui infuriano forze inarrestabili, nascoste dietro un viso imbronciato. Lei è senza dubbio una delle ragioni che mi hanno portato ad amare profondamente "Tutto il buio dei miei giorni", perché la sua tenacia mi si è infilata sotto la pelle, vibrante di vita nonostante tutto.
Ammetto di aver avuto un po' di soggezione mentre le ponevo le mie domande per questa intervista: temevo di banalizzare la sua essenza e che lei potesse subire un po' di ansia da palcoscenico. Ma Camille ha saputo tenere testa anche a questa prova, dimostrando di essere capace di affrontare qualunque ansia e strappandomi anche qualche lacrimuccia.
Pronti a conoscere meglio Camille? Preparatevi a rimanerne innamorati e ricordate che prendendo parte allo speciale avrete più possibilità di vincere le copie che metterò in palio nel terzo e ultimo appuntamento che pubblicherò settimana prossima.
Titolo: Tutto il buio dei miei giorni (Autoconclusivo)
Data di pubblicazione: 10 Aprile 2018
Editore: Sperling & Kupfer
Autrice: Silvia Ciompi
Prezzo: 14,90 €
Pagine: 325
Camille ha vent'anni, ama lo stadio nelle domeniche di primavera, con le maniche corte e le bandiere mosse dal vento, e ama la sua curva, in ogni stagione. Lì salta sugli spalti, tiene il tempo con le mani: è la cosa che ama di più al mondo. È l'unico posto dove si sente davvero viva. Ma un giorno, proprio fuori dallo stadio, la sua vita si spezza. Un'auto con a bordo un gruppo di ultras la investe. Tra di loro c'è anche lui: in curva tutti lo chiamano Teschio. Sembra il cliché del cattivo ragazzo, ricoperto di tatuaggi e risposte date solo a metà. Eppure Teschio e Camille sono come due libri uguali rilegati con copertine differenti. Due anime che non hanno fatto in tempo a parlarsi prima, a guardarsi meglio. Si sono passati accanto migliaia di volte, ma non sono mai stati davvero nello stesso posto. Lo sono ora. Ora che il dolore si è mangiato tutto ciò che Camille era.
Ciao Camille, dopo la chiacchierata con Teschio, non stiamo nella pelle all’idea di conoscerti meglio. Ti va di presentarti senza troppe cerimonie?
Ciao Glinda, grazie per avermi permesso di essere qui con te. Allora, su di me non c’è poi molto da dire. “Sono una normale ragazza di vent’anni con la testa sulle spalle, frequento la facoltà di Storia dell’Arte e ho un’unica grande passione: lo stadio.” Questo ti avrei risposto per presentarmi mesi fa, tre semplici informazioni. Adesso, invece, se mi chiedi di riformulare il tutto, quello che posso dirti è che porto addosso ciò che resta dei miei vent’anni dopo un incidente che mi ha stravolto la vita, sto ricominciando a fare tutto da capo e ad andare avanti, ho un'unica grande passione: lo stadio. Il mio chiodo fisso direi che si intuisce, no?
Eh già, lo stadio: croce e delizia. So che per te è stato e resterà un luogo di grande gioia, ma so anche che lì è avvenuto l’incidente che ti ha cambiato per sempre...
“Lo stadio è il posto dove nasci due volte”, non mi ricordo dove l’ho sentita questa frase, ma è assurdamente vera. La prima partita in curva della tua vita è come un secondo battessimo. Rinasci parte di un gruppo, di un tutto, con un ideale, un colore, uno stemma tatuato sulla pelle e sul cuore. Almeno se lo vivi davvero, come ho imparato a viverlo io e come lo vivono gli ultras. È il mio posto nel mondo, dove mi sento intera, completa, mai fuori posto, ma è stato anche il mio punto di rottura. Dopo l’incidente ho perfino pensato che non ci sarei mai più voluta tornare, non così… Ma non sono mai riuscita a odiarlo, a pentirmi del giorno in cui mio padre mi ci ha portata la prima volta. Perché non posso odiare una parte di me così importante e fondamentale.
Mi sembra di sentirle, le tue emozioni. Fanno bene e male assieme. Dalle tue parole si intuisce che, pur essendo giovanissima, la vita ti ha messo duramente alla prova e ti ammiro per come hai saputo reagire. Cosa ti ha dato la forza per non mollare?
La vita è così: è bastarda e beffarda allo stesso tempo, ma non lo sapeva che io sarei stata più forte di lei. Sono piccola, ma mi so difendere bene, come dice Teschio. Lui che è stato il primo a restituirmi un po’ della forza e un po’ di rabbia per ricominciare a reagire. Lui che mi ha insultata, spronata, trascinata avanti nei miei giorni neri e mi ha riaccesa. Ha riacceso qualcosa dentro di me. Ma la forza di non mollare l’ho ritrovata da sola, conquistando un centimetro di vita dopo l’altro. Perché gli incidenti capitano tutti i giorni e arrendersi alle cose brutte che succedono è come dare la partita vinta a tavolino all’avversario. Invece la curva una cosa me l’ha insegnata bene: non è finita fino a quando non è finita davvero.
Non stento a credere che il caratterino di Teschio sia stato in grado di accendere in te la voglia di ricominciare a prendere a morsi la vita (e forse anche lui). Eppure so che non avresti mai pensato che i vostri destini si incrociassero...
Sai che ancora oggi certe volte mi sembra assurdo? Non lo so spiegare, ma per me i ragazzi del gruppo sono sempre stati come delle rock star o dei supereroi. Dopo anni passati nello stesso posto senza rivolgerci mai la parola, vedere Teschio salire su quell’ascensore è stato un po’ come morire e nascere allo stesso tempo. Una cosa che sogni, che aspetti e aspetti, senza mai il coraggio di confessarlo nemmeno a te stessa. Una cosa che fa paura, ma in grado di riaccendere anche il corpo e il cuore più spezzato. La cosa più assurda è che non era nemmeno l’oggetto della mia cotta epica, ma mi è bastato sentirlo parlare, farmi percorrere dalle sue battute sprezzanti per dieci minuti, per capirlo subito che i suoi occhi mi sarebbero rimasti addosso e non se ne sarebbero andati mai.